
ENERGIA DEL TEMPO
testo critico di Lea Mattarella
Subito, appena le ho guardate per la prima volta, le architetture inquadrate dall’obiettivo di Paolo Mazzanti, mi hanno fatto pensare ai libri di viaggi di Cesare Brandi. Mi sembrava che avessero in comune con il grande storico dell’arte lo stesso modo di afferrare e affrontare il particolare, il medesimo sguardo stupito di chi le cose le conosce e nonostante questo sa che deve scoprirle ancora.
Come se mostrassero i diversi gradi con cui si può approfondire il mondo, come se la realtà dovesse essere svelata a poco a poco, la stratificazione affrontata senza fretta, perché in fondo sono la pazienza e la lentezza a fare la differenza. Da molto tempo ho smesso di amare la velocità: mi piace andare piano, soffermare lo sguardo.
Ed è questo che cerco nell’arte, rincorro, si fa per dire naturalmente, l’elogio della lentezza. Con buona pace di Marinetti. Ora, io immagino che Paolo Mazzanti scopra la vita segreta delle cose che inquadra osservandole a lungo in silenzio. E cogliendo pazientemente ciò che, piano piano, queste gli rivelano. Milano, Venezia e Urbino sono state le tappe di questo suo viaggio a caccia di edifici, in un lento inseguimento di luci, colori e forme.
Mi sembra che per Mazzanti la fotografia sia proprio l’esatto contrario dell’istantanea. Lo immagino assorto a prender la mira, come se gli fosse rimasto l’ultimo proiettile e non potesse assolutamente permettersi di sbagliare. Lui si apposta: è un cecchino appollaiato su un tetto che deve far centro per restituire la possibilità della bellezza. Cosa punta il suo mirino? La storia, anzi - e questo è davvero un concetto riferibile a Brandi - ciò che di questa ci portiamo dentro come ricordo, l’unica cosa che riusciamo a vedere perché è sedimentata dentro di noi: la traccia di un passaggio. Altrimenti luoghi arcinoti come il Duomo di Milano e Piazza San Marco a Venezia si rischia di non riuscire a vederli neanche più.
Sono esatte queste immagini, anche quando squadernano, quando mostrano infilate di colonne di cui si può soltanto intuire l’arcata, o quando presentano particolari che, grazie alla manovra di avvicinamento messa in atto dall’artista, si trasfigurano, perché per Mazzanti accerchiare l’oggetto, assalirlo dal punto di vista del dettaglio, non è un modo per osservarlo, studiarlo e magari catturarlo, ma per aumentarne il mistero. Proprio come succede con gli scatti che precedono la serie di architetture - quelli dedicati al paesaggio e alla vita naturale - anche questa volta Mazzanti inquadra per prendere atto di una vita autonoma, inafferrabile e proprio per questo affascinante.
Da continuare a cercare, scavando in questo caso tra le pietre, nelle opere precedenti tra l’acqua, la terra, il verde delle piante. Esercizi di contemplazione. C’è un’altra cosa che mi ha colpito immediatamente negli ultimi lavori di Paolo: lo sguardo verso l’alto. La maggior parte di queste immagini si concentra su parti di edifici che stanno in alto, su una porzione di mondo sospesa tra la terra e il cielo. Capitelli, sovrapporte, architravi, finestre, la parte superiore delle arcate, le statue che sovrastano le balconate. Sono questi i luoghi su cui esercita il suo confronto continuo con l’istante e con l’oggetto per giungere il più delle volte a un risultato “classico”, di perfezione formale che sembra escludere l’uomo. Sono attraversati da abitanti questi spazi? Quasi mai. Si può scorgere il fervore dell’umanità che ha creato il monumento, si può apprezzarne il genio, addirittura immaginarne la fatica, ma è un’evocazione lontana. Oggi questi edifici vivono un’esistenza che prescinde dal resto.
Ed è con questa che Mazzanti fa i conti, come se avesse ben presente la convinzione di Marguerite Yourcenar, la quale sosteneva che la vera vita di un’opera comincia nel momento in cui è terminata, ed è attraverso l’adorazione, l’ammirazione, l’amore ma anche lo spregio o l’indifferenza che si realizza.
L’artista cerca di raccontare la storia degli edifici. Anzi la fa raccontare a loro. Gli crea il silenzio intorno per far sentire i loro suoni, per lasciar libero “il gemito nei secoli di risuonare nelle orecchie come boschi insonni”, per farlo dire meglio a Orhan Pamuk. Anche ciò che ha creato su queste immagini così celebri - dalla merlettatura del palazzo Ducale di Venezia al leone di San Marco - non sfuggono al medesimo destino: la fotografia vive nel momento in cui si distacca dal proprio creatore, cresce lontano, sotto occhi sconosciuti che dovranno essere in grado di scorgere la sua più intima verità.
Il rischio che corrono e che accomuna tutte le opere di tutti i tempi è di essere guardate con noncuranza, attraversate da pupille distratte. L’antidoto a questo non è, come succede in molta arte contemporanea, la trovata, l’idea che cattura immediatamente e con la stessa velocità svanisce. L’urgenza di Mazzanti è di mostrare la bellezza, una necessità che sa farsi paziente e non lo fa mai ondeggiare, oscillare. L’inquadratura è certa, la luce sicura. Non c’è uno scollamento tra l’immagine e il suo significato, non c’è quella mistificazione così comune oggi che arriva a negare il piacere della contemplazione, perchè un’opera è valida quanto più è complicata, incomprensibile, inaccessibile.
Qui è tutto semplice: siamo di fronte alla forza di un narratore che racconta usando la tua stessa lingua. Prende cose capaci di arrivare da lontano e ci fa venir voglia di non lasciarle andar via. Quegli ori e quegli azzurri veneziani sembrano contenere tutti gli orienti della nostra immaginazione che si incontra con quella dei viaggiatori del passato, mercanti di stoffe, broccati e spezie. Viaggi e miraggi, direbbe De Gregori. Allora vuoi vedere che, a saper cercare, la realtà non è né brutta né scontata come sembra? Lanci un’occhiata sopra la testa e trovi quella statua solitaria intenta a declamare al cielo la sua incredibile verità, che sembra star lì per possedere l’orizzonte e lasciartelo immaginare. Qualsiasi cosa può diventare un poema epico, una raccolta di poesie, un’enciclopedia di idee, una mappa di chissà quali profondità, la storia vera di eroi di pietra. Basta saper guardare. Tutto è immobile perché una superficie agitata non riflette, mentre qui si cerca lo specchio dell’esatezza che sopravvive da sempre, magari nascosta ma infrangibile. Mazzanti le architetture che ha davanti le smonta e le rimonta, come fossero pezzi di un gigantesco gioco.
Stupore e curiosità ci trascinano sul Duomo di Milano dove l’artista ha scattato delle foto che sembrano mettere in scena tutta una città. Grazie a un misterioso e inaspettato modo di inquadrarle ti sembra di vedere queste sculture che si muovono, compiono dei gesti, si parlano, vivono. E sono lì da secoli. Meraviglioso. Antiche guglie che diventano grattacieli di una metropoli del futuro. E tu sei lì a domandarti come.
Perché l’artista ha meticolosamente preparato la perfezione di quel momento lì, lontano dalla sofferenza e dalla contingenza, trasportandoci, di arco in arco, di colonnato in colonnato, in un luogo in cui non esiste l’usura. E restarci per un po’ non è male per niente.
Aprile 2008